Dal 13 agosto 1961 Berlino fu divisa da un muro di cemento armato lungo 160 chilometri che tagliava strade, fiumi, case, cimiteri, famiglie e vite umane. A quasi trent’anni dal suo abbattimento, avvenuto il 9 novembre 1989, sono ancora tante le domande che ci si pone davanti a una pagina di storia così tragica e inverosimile. Non si può dividere il cielo di Gianluca Falanga, edito da Carocci, è un saggio che in poco più di duecento pagine fa chiarezza su un argomento spesso ricco di lacune e informazioni incomplete. E lo fa in modo molto dettagliato, approfondendo ogni aspetto della tematica senza rendere la lettura pesante: il desiderio è solo quello di girare una pagina dopo l’altra per sapere davvero cosa sia successo, chi sono i protagonisti e quali motivi abbiano spinto la costruzione del muro. Nei capitoli vengono analizzate numerose vicende personali: oltre ai fatti storici, le esperienze di vita quotidiana aiutano a comprendere una guerra ideologica a cui uomini e donne hanno dovuto adeguarsi per 28 anni.
Si parte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nel febbraio del 1945 l’Armata Rossa riesce a conquistare Berlino contrapponendosi all’esercito tedesco. La Germania nazista è stata sconfitta, i capi delle potenze vincitrici si spartiscono il bottino suddividendo il territorio tedesco in quattro settori di occupazione (americano, inglese, francese e sovietico) e dividendo la città di Berlino – geograficamente all’interno della zona di occupazione sovietica – in altrettanti blocchi di occupazione. Questa situazione crea subito una certa tensione tra Stalin e Churchill, tanto da dare avvio alla cortina di ferro, una prima divisione in questo nuovo conflitto senza armi. A partire dal 1949 a Berlino ci saranno due amministrazioni comunali, due parlamenti e due sindaci, a ovest viene fondata la Repubblica Federale Tedesca con capitale Bonn, mentre a est si instaura un governo comunista con Berlino capitale della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). La prima è una repubblica parlamentare risultato delle democrazie filoamericane, la seconda una dittatura sul modello sovietico. Questa guerra fredda si combatterà soprattutto sul piano del benessere e della libertà individuale, fino a quando sarà chiaro che, con gli oltre 330.000 berlinesi dell’est emigrati a ovest nel 1953, la DDR è già in crisi. Il Muro di Berlino è stato voluto dall’Unione sovietica proprio per questo motivo: non per contrapporsi all’ideologia occidentale, ma per arginare l’esodo di massa che sta provocando uno svuotamento della zona est e la mancanza di forza lavoro. Nel giro di quasi dieci anni la DDR perde circa tre milioni di abitanti. Nella notte tra sabato 12 e domenica 13 agosto, all’una di notte, si dà il via all’operazione Rose (già sul tavolo della DDR da mesi), quella che vedrà migliaia di soldati e membri di formazione paramilitari in ogni angolo di Berlino intenti a controllare la costruzione del muro e la divisione attraverso il filo spinato.
Le potenze dell’ovest non si lasciano intimidire e nello stesso tempo ritengono questa azione risolutiva e soprattutto decisiva per quanto riguarda la gestione dei blocchi, lo stesso Kennedy ammette: «Un muro dannazione è meglio di una guerra!». Per tanti abitanti Washington ha svenduto Berlino per mantenere la pace, forte di un sistema economico vincente. È in questo clima di legittimazione che intere famiglie vengono separate, che viene negato il transito con i mezzi pubblici da una parte all’altra del muro, che si interrompono lavori e che vengono addirittura murate le abitazioni adiacenti alla linea di confine per non rischiare alcun tipo di fuga. Ed è in questo clima che si faranno avanti violenza, terrore e morte: i diritti umani vengono completamente negati, i cecchini appostati sulle torrette hanno l’obbligo di sparare a chiunque tenti di fuggire, la STASI, ovvero il Ministero per la Sicurezza di Stato, attraverso una fitta rete di informatori e spie tiene sotto controllo l’esercito per evitare le diserzioni e chiunque desti sospetti (sia a ovest che a est), decidendo chi arrestare senza processi. Per mantenere l’equilibrio e la pace, ne fanno le spese gli abitanti che dovranno abituarsi a convivere con una ferita di cemento armato per 28 anni. Falanga descrive molto bene la guerra degli altoparlanti e di tutti quei mezzi di propaganda grazie ai quali circolano le informazioni, si scredita il nemico e si rafforza il sentimento di appartenenza nazionale. Nella DDR non è possibile guardare programmi occidentali in televisione, tanto che “nelle scuole elementari le maestre pongono domande trabocchetto ai bambini per scoprire in quali famiglie si vede la tv dell’ovest”. Ciò provoca diffidenza, paura, solitudine, accresce lo stress psicologico e il desiderio di fuggire. Proprio quest’ultimo aspetto è analizzato a fondo, riportando le storie di chi ha tentato di trovare un varco verso la libertà. Si scavalca il muro, si nuota nel fiume Sprea, si attraversano i tunnel sottoterra, si cercano i checkpoint di passaggio tra Berlino est e Berlino ovest per scappare a bordo di un autoveicolo, si cerca di sfondare le recinzioni.
Tra le storie più interessanti ci sono quella degli studenti italiani Domenico Sesta e Luigi Spina, che decidono di scavare segretamente un “tunnel internazionale” attraverso il quale nel 1962 ventinove persone lasceranno la zona est, e quella di una coppia che tenterà una fuga disastrosa con una mongolfiera. Di sicuro quella più riuscita è a opera di due amici, Karsten Klünder e Dirk Deckert, che nel 1986 tentano la traversata del Mar Baltico per raggiungere l’isola danese di Moen con i loro surf appositamente costruiti per l’operazione: hanno sfidato il freddo e il rischio di essere scoperti e uccisi per essere finalmente liberi. Tra chi ha vissuto l’orrore del Muro, c’è anche la comunità italiana che aumenta nel corso dei decenni. Spesso il regime comunista li vede come elementi ostili, sospetti e scomodi perché hanno la possibilità di muoversi più agevolmente tra est e ovest, in quanto cittadini stranieri. Alcuni come Elena Sciascia e Pietro Porcu hanno vissuto la terribile esperienza del carcere comunista, riportando un fortissimo trauma.
Se è vero che negli anni del muro sono in tanti a scappare, è anche vero che già nel 1967 solo il 30% dei cittadini della Repubblica Federale Tedesca ricorda ancora la data di costruzione del Muro: nonostante le manifestazioni, la situazione si normalizza, si accetta questa divisione come qualcosa che farà per sempre parte dei berlinesi. In realtà, esistono documenti che confermano l’aumento di psicosi sia a ovest che a est, il trauma di una città divisa e le sue devastanti conseguenze a livello emotivo si manifestano con attacchi di panico, disturbi comportamentali e purtroppo anche suicidi. Negli anni Sessanta Berlino ovest detiene il triste primato di città con il più alto numero di tentativi di suicidio del mondo, ma a Berlino est il numero dovrebbe essere anche superiore, solo che non esistono statistiche ufficiali che possano confermare o smentire questo sospetto.
C’è qualcosa, però, che rende quasi impossibile dimenticarsi del Muro: l’arte. A Berlino si riversano numerosi artisti che utilizzano quella distesa di cemento come tela per le loro opere di denuncia (spesso compaiono scritte che assimilano i capi della DDR agli assassini dei lager nazisti). Non si tratta di graffiti che hanno l’obiettivo di abbellire il Muro, bensì di opere che polemizzano con il regime comunista, ne mostrano la vulnerabilità e svelano l’inadeguatezza di fronte alla nascente creatività underground e anarchica. Tra questi Mauermaler (Pittori del Muro), Thierry Noir è sicuramente uno dei più famosi che ha reso il Muro ancora più visibile nel 1984 con il suo Picasso on the street dai colori vivaci.
E poi sono sempre di più le azioni di protesta lungo la linea di confine, come quella di John Runnings che nel 1986 si arrampica fino in cima al muro per poi prenderlo a martellate. Sembra quasi un’azione che anticipa ciò che succederà il 9 novembre 1989, il giorno in cui migliaia di berlinesi prenderanno finalmente a picconate quella striscia di sofferenza. Falanga racconta dettagliatamente come si sia giunti a quel momento, con la crisi dell’Unione Sovietica e la Perestrojka di Gorbačëv con la quale tenta la via delle riforme e della democrazia. La DDR è uno stato nato sconfitto, che ha seminato solo repressione e non ha raccolto niente se non del malcontento diffuso: adesso ci si aspettano grandi cose dal marco e dal benessere occidentale, nonostante si facciano i conti anche con il rovescio della medaglia del sistema economico capitalista. Questo saggio ricostruisce il periodo storico e la situazione sociale con particolari e storie di vita che destano curiosità, oltre a rendere la lettura molto scorrevole. Un libro che pone le basi per affrontare ulteriori approfondimenti o per comprendere pienamente film e romanzi ambientati in questi anni difficili per la Germania, ma soprattutto che permette di non dimenticare un conflitto politico che ha spaccato una città e un intero mondo.