23 aprile 2012
Libri, Recensioni

In stato di ebbrezza – James Franco

In stato di ebbrezza - James Franco

Il giorno di Halloween di dieci anni fa, al mio secondo anno di liceo, ho ucciso una donna.

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È assurdo come accadono cose nuove che ti fanno dubitare che ci sia qualcosa di bello nella vita. Sono tutti lì che fanno finta di essere normali e tuoi amici, ma sotto sotto ognuno di loro vive un’altra vita di cui tu non sai un bel niente, e se solo avessimo una videocamera a riprenderci tutto il tempo, potremmo andare a guardare i video degli altri e scoprire com’è fatto veramente ciascuno di noi. A quel punto, però, ti ritroveresti a guardare le ragazze che fanno la cacca e i ragazzi che cercano di succhiarselo da soli.

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La materia preferita di mio padre è la matematica. Lui lavora all’IBM, nella Silicon Valley. Passa le giornate a fare matematica. Io odio la matematica. Mi fa studiare con lui, per cui in matematica sono bravissima, ma non vado a vantarmene in giro perché sono una femmina.

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I compiti in classe di matematica erano quasi sempre di giovedì, per cui il mercoledì io e mio padre dovevamo studiare molto di più, e io mi perdevo Beverly Hills 90210. Non lo registravo mai.

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Uccelli, e uccelli, e animali, e cose; con le fionde, e i fucili ad aria compressa, li uccidevamo, e li uccidevamo. Ne uccidevamo un sacco. Una volta ogni tanto uno dei miei amici portava un fucile ad aria compressa e andavamo a fare baldoria. Sparavamo a tutto quello che si muoveva.

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Poi Simone mi spezzò il cuore. Mi lasciò per Rio Gereaux, un campioncino di ginnastica. Eravamo in quarta elementare, ma fu comunque una bella mazzata. Cioè, quand’è che le cose dovrebbero cominciare a essere importanti? Adesso, e adesso, e adesso.

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Abbiamo sparato coi fucili ad aria compressa contro la chiesa Unionista. Le pallottole hanno fatto dei leggeri scoppiettii nel bucare le finestre della chiesa. Quando ero più piccolo mi metteva paura vedere quei puntini circondati di vene. Li associavo a dei cattivi sconosciuti con in mano aggeggi distruttivi. Senza faccia e che giravano vorticosamente. Adesso i cattivi eravamo noi.

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Eravamo ubriachi e ci inventavamo canzoncine tutte nostre. Cantavamo degli ebrei, e di quant’erano spilorci. Non con cattiveria, solo per fare casino e divertirci. Io cantavo a squarciagola.

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Dopo un po’ ho acceso la macchina e lentamente sono tornata verso casa del professor B. Nel vecchio pacchetto m’era rimasta l’ultima sigaretta. L’avevo messa sottosopra per esprimere un desiderio. Me la sono infilata in bocca, l’ho accesa e ho espresso un desiderio disperato.

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Quella notte non sono riuscito a dormire. Era come se fosse la vigilia di Natale, ma non lo era. Era una cosa che non conoscevo. Non avrei ricevuto né dato niente. Avrei solo portato via qualcosa.

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Stiamo qui seduti perché è buio, e fuori dall’edificio non ci sono luci. Ci siamo fermati solo perché è ancora notte e siamo ubriachi, e nessuno vuole andare a casa, mai, e questo posto vale come un altro per starsene semplicemente seduti nell’ombra e lasciare che la vita rallenti.

Sono tutti adolescenti. Sono tutti di Palo Alto. Sono (quasi) tutti sempre strafatti di alcol o droga. E, soprattutto, sono tutti soli. Sono i protagonisti di In stato di ebbrezza,  raccolta di racconti di James Franco pubblicata da minimum fax (anche in eBook). Siamo nei primi anni ’90, quando il videogioco di culto era Street Fighter e in tv trasmettevano Nella giungla di cemento, un film fatto di sparatorie, sesso e furti d’auto nella parte di Los Angeles dominata dagli afroamericani. Anche Palo Alto era teatro di sparatorie, sesso e furti d’auto. E James Franco ce lo racconta in modo semplice, senza pregiudizi, senza inutili moralismi. C’è solo l’immensa solitudine di un gruppo di ragazzini che vanno alle feste per rimorchiare, fumare erba, scolarsi bottiglie di vodka e fare a botte. Si percepisce una costante tensione che porta i giovani ribelli a compiere azioni frutto della noia e della poca autostima. Ma sfido io ad avere stima di sé a 13 anni. E quindi si passa il tempo a sparare agli uccelli in volo, a bruciarsi le braccia con le sigarette, a fare svastiche sui muri (solo perché fa ridere) e a insultare gay e troie. Alcuni racconti sono splendidi nella loro unicità e, a volte, anche nella loro banalità.

In Lockheed la protagonista, bravissima in matematica, inizia uno stage alla Lockheed Martin (quelli che fabbricano missili e satelliti): il suo compito è guardare vecchie bobine di filmati sulla luna e annotare le macchie che compaiono sulla pellicola. Dopo un po’ questo incarico diventa noioso, così Marissa decide di passare tutto il tempo a disegnare «arcobaleni, persone, città, pistole, gente che veniva colpita e sanguinava, gente che faceva sesso. Quando mi stancavo scarabocchiavo e basta. Provavo a fare ritratti di persone che conoscevo. Quelli della mia famiglia venivano fuori sempre buffi, facevano ridere perché erano somiglianti ma non abbastanza. Poi disegnavo tutte le cose della mia infanzia, tipo Hello Kitty e Iridella e i Miei Mini Pony. Disegnavo i G.I. Joe di mio fratello. Disegnavo i Miei Mini Pony che uccidevano i G.I. Joe». Marissa è un’artista. Si rifugia in quei disegni per scacciare l’insoddisfazione e il fallimento della vita reale. Poi c’è Storia americana. Il professore di storia spiega la schiavitù agli studenti di primo liceo e fa mettere in scena un finto dibattito tra gli schiavisti e gli stati liberi degli Stati Uniti. «Io facevo il Mississippi, e dovevo fare finta di volere che la schiavitù restasse legale. Io e gli altri quattro compagni che facevano gli stati schiavisti ce ne stavamo seduti da una parte della stanza e davanti a noi avevamo i cinque ragazzi degli stati liberi. Il resto della classe ci guardava con la faccia di chi non capisce niente». Interpretare un razzista ha le sue conseguenze. E di certo non sono conseguenze piacevoli. Usare la parola negro ti mette subito nella condizione di essere picchiato a sangue. Uno dei racconti più toccanti e difficili da digerire è Chinatown. È così che verrà chiamata Pam, mezza vietnamita e mezza bianca, che con la Cina non ha nulla a che fare. Conosce Roberto, forse se ne innamora: da quel momento diventa la ragazza di tutti. Sesso di gruppo quasi al limite dello stupro e della violenza più meschina. Chinatown si concede al cuoco di un piccolo ristorante, e Roberto ottiene una cena gratis.

No, questa non è la Silicon Valley di Facebook e della Stanford University. Questa è la provincia americana in cui è difficile sopravvivere senza una bottiglia di birra in mano, quando al suo posto non c’è addirittura una pistola. Le delusioni sono tante e durante l’adolescenza sono amplificate al massimo. E il massimo lo dà James Franco, che oltre a essere un eccezionale attore e regista, è anche un abile narratore. Si sente un po’ l’aria di Bret Easton Ellis, ma in questi racconti c’è più semplicità nei sentimenti e nelle parole. E ti fanno venire voglia di prendere un foglio bianco e disegnare un grandissimo arcobaleno.

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